La violenza esplosa a Berlino nella serata di ieri ci ricorda (senza che ve ne sia bisogno) che niente di ciò che accade nell’amministrazione dei singoli stati dell’Unione Europea deve fermare un rigoroso impegno nella lotta al terrorismo e a favore di un’integrazione ragionata.
Proprio sull’integrazione vorrei riflettere, perché non vorrei che le recenti tendenze a forme estreme di buonismo da un lato e di intolleranza dall’altro ci facessero perdere lucidità. L’integrazione è, a tutti gli effetti, un processo che serve a conciliare due o più elementi distinti che entrano in contatto tra loro. È quindi un lavoro che necessita dell’impegno di tutte le parti coinvolte: non solo quello degli ospiti, non solo quello degli ospitanti.
Se da una parte deve essere assicurata l’istruzione per chi arriva nel nostro paese (o comunque che si sposta da una zona più arretrata a una più civilizzata), dall’altra parte deve esserci il rispetto per le norme di chi ospita.
Firmare sulla Costituzione, ad esempio, dimostrare di essersi impegnati nel comprendere usi e costumi del popolo di cui si vorrebbe far parte, di aver imparato le leggi della civiltà in cui si vorrebbe lavorare, non è un’opzione.
Pregare nella lingua del popolo ospitante, ad esempio, non significa sminuire la propria civiltà: farsi comprendere è un atto di rispetto e, tra l’altro, aiuta i cittadini del territorio a comprendere quel che accade a casa loro, in modo da abbattere i muri della paura e del sospetto.
Lo stesso dicasi per le differenze di genere. Se donne e uomini di una certa cultura sono abituati a tenere un determinato rapporto tra loro, devono assicurarsi che tali comportamenti siano legali nel paese in cui entrano perché la legge, ora e sempre, in caso di conflitti è da considerarsi superiore alla tradizione.
Basta davvero poco per capire che tutte le parti devono collaborare per rendere un rapporto stabile e proficuo. Accade nelle coppie, tra amici, in una classe e in una squadra. E dobbiamo farlo accadere in Europa.